Quello che capita, non capita mai per caso…o sì?


Escher, Relativity (1953)

Insomma, mi ritrovai ieri sera in uno stato d’animo pericoloso e feroce come una belva raziocinante in una selva oscura di pensieri. Ad esempio. Cosa vuol dire vivere in un paese che non è il tuo? Forse non è così facile da comprendere, per chi è abituato a stare nel proprio. Ma vale la pena fare uno sforzo.

Innanzitutto, quali sono i motivi alla base per cambiare realtà. Perché di questo si tratta in fondo, di cambiare realtà. “Entrare in una realtà sconosciuta” è una frase da fantascienza, no? Ecco, diciamo pure che ogni emigrato è sempre un alieno.

I motivi in superficie sono puramente economici. Cioè, la sopravvivenza. Il futuro migrante è una persona che si rende conto di non avere nulla a che spartire con il sistema di vita del proprio paese, è una persona che spesso si sente – ed è – rifiutata a casa sua. E che proprio per questo fatica a entrare nel meccanismo lavorativo della propria nazione. E perché certe persone si devono sentire rifiutate a casa loro, se è una casa accogliente (ancora, ma non per molto) per parecchi ? E come nasce questo destino?  Bella domanda. Questo mi fa ricordare i tempi delle elementari quando nell’ora di ricreazione i bambini stabiliscono con ferocia chi gioca e chi resta in disparte. Insomma, il nostro destino nasce in una ventina di minuti annunciati da una campanella.

E’ ironico, no?

E’ ironico, perché è il caso. E’ il caso che si nasca senza denti per cibi troppo duri o troppo raffermi.  E’ un caso, solo un caso, nascere e studiare in un paese, per dover raggiungere un livello di vita decente in un altro, di cui non si conosce la storia e non si parla ancora bene la lingua. Migranti per caso. Poi ci sarà sempre l’inveterato psicologizzante per cui nulla è casuale, nemmeno il caso stesso: siamo noi sotto sotto  a volere tutto ciò che ci capita.

Figuriamoci. Il caso esiste e ci sovrasta. E’ l’accadere degli eventi, di eventi troppo infinitesimi perché si possano comprimere in una teoria soddisfacente e completa. E’ inutile trovare un significato, sarebbe come voler contare tutti i numeri per essere certi che siano infiniti. Così, ogni volta che mi chiedono perché sono emigrata in Germania, certa di non poter essere davvero esaustiva,  non enumero più i fatti concreti che mi hanno portato fin qui (la mancanza di risposte lavorative italiane decenti, la risposta decente dell’estero, la velocità di reclutamento tedesca, ecc. ecc) ormai rispondo solo “per caso”.

IL CASO
di THOMAS HARDY

Se solo un dio vendicativo mi chiamasse
Dall’alto del cielo, e mi schernisse: ” Tu, creatura che soffre,
Sappi che il tuo dolore è la mia estasi,
Che del tuo amore frustrato si nutre il mio odio!”

Allora sopporterei, tenderei i nervi e morrei,
Rafforzato dal senso d’un ira immeritata;
Mezzo consolato al pensiero, che uno più potente di me
Avesse voluto e assegnato le lacrime ch’io piango.

Ma non così. Come accade che la gioia venga uccisa,
E perché avvizzisce la più dolce speranza mai seminata?
Il caso balordo s’oppone al sole e alla pioggia,
E il tempo biscazziere getta per allegria il dado d’un lamento …
Per questi giudici ciechi tanto valeva cospargere
Gioie lungo il mio cammino così come il dolore.

HAP

If but some vengeful god would call to me
From up the sky, and laugh: ” Thou suffering thing,
Know that thy sorrow is my ecstasy,
That thy love’s loss is my hate’s profiting!”

Then would I bear it, clench myself, and die,
Steeled by the sense of ire unmerited;
Half-cased in that a Powerfuller than I
Had willed and meted me the tears I shed.

But not so. How arrives it joy lies slain,
And why unblooms the best hope ever sown?
Crass Casualty obstructs the sun and rain,
And dicing Time for gladness casts a moan …
These purblind Doomsters had as readily strown
Blisses about my pilgrimage as pain.

THOMAS HARDY